28 novembre - 22 dicembre 2016
TEATRO STANZE SEGRETE

La “Porta chiusa” di Sartre in realtà non è chiusa; sono Garcin, Estelle e Ines, i tre protagonisti, a non volerla aprire.

Loro stessi “si dannano”, si fanno artefici del loro inferno. Questa terza opera teatrale di Sartre ebbe da subito un travolgente impatto ispirando fino ai giorni nostri film e commedie di successo. La filmografia e drammaturgia è infatti ormai colma di “cene” e “incontri” che alla fine si trasformano in furiosi scontri senza via d’uscita (vedi i recenti “Carnage”, “Perfetti sconosciuti” etc.). Anche il colpo di scena che rivela l’effettiva condizione del protagonista è stato usato da innumerevoli drammaturghi e sceneggiatori a partire da” La Signora di Shangai” di Orson Wells (uscito nel 48; il testo di Sartre è del 44)  fino al recente “Sesto senso”.
Sartre dichiara che ha voluto intendere che l’inferno sono gli altri. È necessario allora partire da questa sua lapidaria affermazione. Dunque: l’inferno è, comunque lo si voglia immaginare o rappresentare, una punizione per azioni che hanno provocato dolore e sofferenza in qualcun altro; ne consegue che senza un “altro” non può esserci sbaglio ma anche che l’altro è il punto di riferimento per ogni nostra azione, negativa o positiva. Nella stanza di Huis Close non ci sono specchi, non ci si può rifugiare nella propria immagine, nei propri bisogni e pensieri apparenti. Il vero specchio è l’altro, che non permette di scegliere cosa guardare di se stessi ma costringe ad affrontare anche i meandri più oscuri del proprio essere. Tuttavia è necessario un terzo “specchio” per smascherare colpe, menzogne e ipocrite complicità e provocare laceranti sensi di colpa. Gli altri dunque sono l’inferno, la punizione. Ma l’umanesimo in Sartre è troppo preponderante perché questa affermazione non sottintenda il vero scopo di ogni punizione: la liberazione dall’errore e quindi la riscoperta della necessità dello stare insieme; intendendo il crescere insieme, il condividere, il sostenersi, l’aiutarsi a uscire dall’inferno della solitudine.
La battuta con cui Garcin chiude il dramma lascia intendere che la punizione continuerà ma che una salvezza forse sarà possibile. Chissà che Sartre non abbia ispirato in questo modo anche quella scelta da Stanley Kubrick per chiudere il suo “Eyes Wide Shut”: Nicole Kidman e Tom Cruise (presenti, come un terzo personaggio/specchio, i loro figli adolescenti) ancora storditi dagli avvenimenti si guardano in silenzio. Sono soli, terribilmente. Cruise, spaurito e fragilissimo domanda alla moglie: “E adesso che facciamo?” Lei, altrettanto sola, fragile e spaurita ma ormai consapevole, risponde con un verbo, che rivela un progetto, una via d’uscita, un possibile “riveder le stelle”. Ma il soggetto non sarà più una prima persona singolare: non più “io”, ma “noi”.
 





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